La storia del Sebeto, antico fiume di Napoli

  • di Simona Vitagliano
  • 5 anni fa
  • Napoli
  • 1

Le leggende che fluttuano intorno alla città di Napoli – e al suo intero circondario – sono talmente tante che persino per i partenopei è impossibile conoscerle tutte. Molte, però, affondano le radici in verità ed evidenze storiche innegabili, fondendosi a loro in maniera così indissolubile da diventare una cosa sola.

È un po’ quello che è successo con il Sebeto, il fiume che si racconta abbia bagnato per moltissimo tempo il centro vivo della città, senza lasciare traccia… o quasi.

Ma andiamo con ordine. Dove si trovava e quali sono le prove della sua esistenza?

Un fiume scomparso, mai esistito o semplicemente dimenticato?

Iniziamo con un dato incontrovertibile: chiunque sia passato almeno una volta a Mergellina, in Largo Sermoneta, si sarà ritrovato davanti quello splendore della fontana monumentale che compare proprio dinanzi al mare: si tratta proprio della Fontana del Sebeto (raffigurato da un vecchio ignudo). Già questo dovrebbe far pensare: esiste addirittura un intero monumento arrivato sino a noi che porta il nome di questo fiume!

Ma non è tutto: c’è un’opera di Alessandro Scarlatti, tra l’altro ancora consultabile perché conservata presso la biblioteca del Conservatorio di S.Pietro a Majella, che si intitola “Nel mar che bagna al bel Sebeto il piede“, dove si canta di gare di vele alla foce del fiume e, in parallelo, di una gara d’amore che nasce tra due pastori. Anche in un melodramma di Tiberio Natalucci, denominato “Il viaggio di Bellini”, si canta “Del bel Sebeto le incantate sponde / Son presso omai: ricalcherò quel suolo / Che de sudori miei primo bagnai…“.

Tornando indietro nel tempo e cercando di raccontare la storia di questo corso d’acqua dolce (che non era certamente l’unico a bagnare Napoli, se pensiamo al Rubeolo o a quello che scorreva lungo l’odierna Via Chiaia), in realtà, sono tantissimi altri gli elementi che confermano la sua reale esistenza, anche se mancano moltissimi dettagli che potrebbero chiarirci interamente la storia.

Il Sebeto, stando ad alcune monete coniate fra il V e il IV secolo a.C., bagnava l’antica Neapolis ed il suo nome greco era Sepeithos, letteralmente “andar con impeto”; doveva essere, quindi, anche piuttosto irruente, in origine. La Napoli antica gli aveva dedicato persino un culto e una iscrizione di marmo nei pressi di Porta del Mercato.

Molti antichi viaggiatori hanno raccontato, attraverso le loro cronache, che la greca Neapolis (“città nuova”) era divisa da Partenope (Palepolis, “città vecchia”) da un fiume che, secondo alcuni, era navigabile e si trovava “fra lo monte S. Erasmo e lo monte di Patruscolo“, l’area dove attualmente si trova Piazza Municipio, che ne avrebbe ospitato la foce. Storie di assedi e di accampamenti hanno come protagonista proprio questo luogo.

Il Sebeto nasceva dalle sorgenti della Bolla (anche se ci sono testimonianze raccolte Giovanni Antonio Summonte nel 1675 che parlano di origini provenienti dai sotterranei della Chiesa di Santa Maria del Pozzo a Somma Vesuviana e una teoria di Ambrogio Leone del 1514 che indicava come possibile sorgente una zona del nolano), alle falde del Monte Somma (il rilievo montuoso che compare accanto al Vesuvio) e attraversava gli attuali comuni di Casalnuovo, Casoria e Volla, ingrossandosi ed arricchendosi attraverso le acque piovane. Prima di sfociare nel golfo di Napoli, però, si divideva in due rami; e qui subentrano le prime incertezze: il primo sembra che finisse sotto la collina di Pizzofalcone, tra le attuali Piazza Borsa e Piazza Municipio, mentre l’altro più a oriente, verso l’attuale Ponte della Maddalena (l’intera zona era alquanto acquitrinosa tanto che, nel IX secolo, veniva definita territorium plagiense foris fluvium; prima del ponte attuale erano già esistite altre strutture di collegamento).

Il problema è che le testimonianze più antiche identificano il Sebeto solo nel primo ramo mentre, con lo sviluppo urbanistico della città ed il suo conseguente interramento, ci si cominciò a riferire esclusivamente al secondo.

Durante il Medioevo il fiume era ancora esistente, ma già ridimensionato: nel 1340 persino Petrarca si recò a Napoli con l’intento di trovarlo (grazie ad alcuni riferimenti negli scritti di Virgilio, Tito Livio e Stazio), ma non scovò null’altro che un rigagnolo tra palazzi, di cui non si hanno molte altre informazioni che potrebbero aiutare nell’identificazione.

La Fontana del Sebeto arrivò molto più tardi, nel 1635, per volere del viceré Emanuele Zunica e Fonseca e su progetto di Cosimo Fanzago. La sua originaria collocazione era alla fine della strada Gusmana, in seguito chiamata “salita del Gigante” (l’attuale via Cesario Console), addossata ad un muraglione che affacciava su un arsenale e posizionata frontalmente a via Santa Lucia. Si pensa, tuttavia, che al momento della commissione il Sebeto fosse già più leggenda che realtà. La fontana, poi, nel 1900 venne smontata e ricomposta solo nel 1939, sistemata nella posizione attuale dopo la colmata del tratto finale di Via Caracciolo avvenuta negli anni ’30.

Eppure Tommaso de Santis, nel libro “Storia del tumulto di Napoli” del 1858, scrisse del cadavere di Masaniello: “Quivi lo rizzarono, e lavato che l’ebbero al Sebeto, lo portarono a Port’Alba“.

Ma c’è dell’altro.

In alcune foto di fine Ottocento compaiono dei contadini che trasportano merci e animali affondando fino alle ginocchia in quella che dovrebbe essere stata la melma del Sebeto, come si configurava all’epoca; inoltre, Raffaele De Cesare, nel suo libro “La fine di un Regno” (1900) scrisse: “Nel 1858 il Marchese Francesco e il Cavaliere Luigi Patrizi chiedevano il permesso di costruire due mulini sulle rive del Sebeto, in una loro tenuta presso la pianura della Bolla“.

Insomma, sembra che all’inizio del Novecento il fiume esistesse ancora ma sotto forma di palude da bonificare tanto che, con l’espansione urbanistica di Napoli del XX secolo verso la zona orientale, ne venne cancellata ogni traccia. O almeno così si è sempre pensato.

D’altro canto, nel corso del tempo c’è stato chi l’ha definito “povero d’acqua ma ricco per gran fama” (Giannettasio, “Piscatoria et Nautica” del 1685) e chi ne ha testimoniato un’abbondanza tale da far girare i mulini (Carlo Celano, vissuto nei Seicento) e accogliere bagnanti e pescatori di anguille Sebetie, servite nella famosissima Taverna delle carcioffole (Giustiniani, “Dizionario grafico ragionato del Regno di Napoli”, 1816).

Ancora, c’è chi ha confuso il corso del Sebeto con il Rubeolo, tanto da instillare una polemica che ha infiammato i letterati del Settecento per lungo tempo: Boccaccio, ad esempio, non era per niente sicuro dell’esistenza del Sebeto poiché, in effetti, durante il suo momento storico, terremoti, eruzioni e maremoti avevano cambiato l’assetto della città, interrandolo parzialmente (di queste catastrofi ne aveva parlato anche Petrarca, vissuto nella stessa epoca).

Addirittura, Carlo Celano aveva riferito che sarebbe stato il maremoto del 1343 a sconvolgere e seppellire il corso del fiume, ma questa ipotesi è stata smontata dall’ingegnere e speleologo Clemente Esposito attraverso delle verifiche dirette fatte a fine Novecento.

Non dimentichiamo, comunque, che il Sebeto potrebbe essere stato “vittima” della storia geologica di Napoli, a partire dalla devastante eruzione del Vesuvio del 79 d.C. (a seguito della quale c’è chi dice che si sarebbe biforcato, dando vita al Rubeolo) e finendo a eruzioni, terremoti e maremoti; alcune ipotesi parlano addirittura di una confluenza tra le attuali via Foria e via Pessina con le acque del canalone che raccoglieva quelle dei Camaldoli, dell’Arenella e i canyon della Sanità, dove confluivano quelle di Capodimonte e Materdei, che creavano quella “lava dei Vergini” che ha a lungo devastato gli edifici della zona, fin quando, nel 1960, il Sindaco Achille Lauro fece costruire il collettore delle colline per l’incanalamento.

Le teorie sono talmente tante che si potrebbe scrivere per settimane.

Oggi

Secondo alcuni studiosi ed esperti, il Sebeto non sarebbe stato completamente sepolto.

In via Lufrano, a Casoria, e prima di arrivare al Ponte della Maddalena, in via Francesco Sponsilli, si scorgerebbe ancora un tratto lungo una ventina di metri sotto un ponte della autostrada; secondo questa teoria, l’antico Sebeto sarebbe identificabile con il torrente Arenaccia, anch’esso oramai completamente interrato. Al fiume, anzi, sarebbero attribuibili tutti i problemi di natura geologica che affliggono le opere pubbliche della città in quella zona, proprio perché costruite nei pressi del corso di un fiume e soggette, quindi, a fenomeni di infiltrazione.

Secondo Antonio Emanuele Piedimonte, invece, giornalista e saggista contemporaneo, il Sebeto era molto noto anche alla fine dell’Ottocento, tanto che sulle sue sponde si sarebbero addirittura eretti dei lidi per bagnanti e, nel primo Novecento, avrebbe preso posto nelle immagini delle cartoline della città, frequentato persino dalla camorra che avrebbe fatto pagare il pizzo per consentire l’abbeveraggio dei cavalli.

È dato certo, però, che nella zona delle vecchie paludi e del Sebeto sia stato costruito il Centro Direzionale, con colate selvagge di cemento a destra e a manca.

Oggi c’è un’altra tesi, però, molto interessante, a cura dello storico di Ponticelli, Umberto Scognamiglio: l’antico casale del quartiere, secondo i suoi racconti, sarebbe stato circondato da una terra fertile proprio grazie al passaggio del Sebeto che, secondo lui, non può essere semplicemente “sparito” dal XIII secolo, quando a carico del circondario (Arco Felice) c’era stato soltanto un evento vulcanico nel 1538. Lo studioso, quindi, si è rifatto ad un canale che è esistito nei presso di Piazza Municipio fino al 1946, come darsena per battelli a ridosso del porto. Secondo lo storico: “L’unico Sebeto di cui conosciamo l’esistenza è quello che ancora oggi bagna la campagna orientale della città di Napoli. Un Sebeto abbandonato dalla inciviltà degli uomini, dimenticato, deviato, seppellito, mai sottoposto a dragaggio, ridotto a uno scolo d’acqua putrida“.

Insomma, se, da un lato, sull’esistenza del Sebeto sembrerebbe non ci siano dubbi, dall’altro dare un’identità ed una cronologia storica certa a questo corso d’acqua così misterioso sembra davvero molto faticoso… ma anche infinitamente affascinante.

Tanto che, da secoli, si tramandano tantissime leggende che portano questo nome.

Il mito

Secondo un mito greco ambientato all’altezza dell’antico Castello del Carmine (una fortezza della città collocata all’incirca tra Piazza del Carmine, Via Marina e Corso Garibaldi), Vesevo e Sebeto erano due giganti più forti dei titani greci che, spesso, si scontravano lanciandosi fuoco e massi reperiti sul fondo del mare; nei momenti di tregua, intorno a quel circondario sarebbero nate nuove civiltà (grazie alla conseguente fertilità dei terreni).

Secondo un’altra versione, Vesevo era figlio del dio Vulcano e Sebeto della sirena Partenope: i due si sarebbero innamorati della stessa donna, Leucopetra, la figlia di Nettuno, gettando la ragazza nella disperazione a causa dell’indecisione. Dopo un litigio, i due contendenti avrebbero deciso di mettere in piedi una gara per accaparrarsi l’oggetto del loro desidero: chi l’avrebbe afferrata per primo l’avrebbe avuta. La ragazza, però, si spaventò e chiese aiuto al padre che la tramutò nel faraglione più grande di Capri (“Leucopetra”, infatti, in greco significa “pietra bianca”). Vesevo si arrabbiò così tanto da sognare vendetta e si trasformò nel Vesuvio; Sebeto, invece, si recò alle pendici del vulcano e pianse tutte le sue lacrime, fino a far nascere un fiume che avrebbe avuto il ruolo di protettore della città.

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