Il maestoso ed imponente Maschio Angioino a Napoli

  • di Simona Vitagliano
  • 4 anni fa
  • Napoli
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Sin dall’antichità, Napoli viene chiamata “la città dei sette castelli“, poiché è l’unico perimetro urbano del mondo a contenere, appunto, un numero così alto di manieri. Quali sono?

Il Castel dell’Ovo, accoccolato sull’isolotto di Megaride, il Castel Nuovo, chiamato anche Maschio Angioino, che con la sua pianta trapezoidale domina Piazza Municipio, il Castel Sant’Elmo, che si erge sulla collina del Vomero nei pressi del Complesso di San Martino, il Castel Capuano, nei pressi di Porta Capuana, il Castello di Nisida, che oggi ospita il carcere minorile, ed il Castello del Carmine e il Forte di Vigliena, entrambi quasi del tutto distrutti dal tempo e dalle vicissitudini della storia, oggi visibili solo in alcune delle loro parti.

Il Maschio Angioino

Imponente, medievale ma anche rinascimentale, il Maschio Angioino è, oggi, un vero e proprio simbolo della città: merito di come si inserisce in maniera spettacolare nel panorama della metropoli odierna, fulcro di una delle sue piazze più trafficate quotidianamente da residenti e turisti. Sede della Società Napoletana di Storia Patria e del Comitato di Napoli dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, ospita anche il museo civico con la sua Cappella Palatina e i percorsi museali. La costruzione è antichissima: il nucleo primario risale addirittura al 1266, quando Carlo I d’Angiò, una volta sconfitti gli Svevi, salì al trono di Sicilia e trasferì il titolo di capitale da Palermo a Napoli; all’epoca era Castel Capuano ad essere utilizzato come residenza reale, ma si parlava di un assetto, in fondo, pensato per una monarchia esterna: per questo il re ordinò la costruzione di un nuovo castello, tassativamente in prossimità del mare, per farne la sua reggia. Nessuno poteva sapere che la vita sarebbe stata così beffarda che non ci avrebbe mai dimorato: questo perché, nonostante i lavori (diretti dall’architetto francese Pierre de Chaulnes) siano durati solo 3 anni, la rivolta dei Vespri siciliani gli costò la corona di Sicilia (conquistata da Pietro III d’Aragona) e il nuovo castello rimase inutilizzato fino al 1285, proprio anno della sua morte.

Fu il figlio di Carlo I, re Carlo II lo Zoppo, a trasferirsi presso la nuova residenza: per suo desiderio, il castello venne anche ampliato e abbellito.

Nel dicembre 1294 la sala principale fu persino la sede della celebre abdicazione di papa Celestino V dal trono pontificio.

Ancora, il castello venne nuovamente ampliato e ristrutturato con Roberto il Saggio, nel 1309, appassionato di cultura e arte tanto che lo fece diventare un vero e proprio salotto letterario del tempo: ospiti ne furono, tra gli altri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, durante le loro “fasi” napoletane, che potettero ammirare i meravigliosi affreschi realizzati su commissione da moltissimi pittori importanti, come lo stesso Giotto che si occupò, in particolare, della Cappella Palatina.

Nel 1343 arrivò il turno di Giovanna I che, però, nel 1347 fuggì in Francia, lasciando Castel Nuovo preda dell’esercito del re d’Ungheria Luigi I il Grande, furioso perché sospettava che il fratello Andrea, nonché marito di Giovanna, fosse rimasto ucciso da una congiura di palazzo istigata proprio dalla regina. Al suo ritorno, il castello appariva saccheggiato ed in pessime condizioni, tanto che necessitò una nuova ristrutturazione.

Altre vicissitudini ed altri reali si succedettero freneticamente, in un alternarsi di lotte, assedi e cambi di generazione che culminarono, poi, nell’ultima sovrana angioina, Giovanna II. Ed è qui che si è instaurata una leggenda che è arrivata fino al giorno d’oggi: quella dei numerosi amanti della regina, uccisi dopo aver soddisfatto le sue voglie nella segreta “fossa del coccodrillo“. Questo per conservare il suo buon nome e farli sparire, vista la loro numerosità e considerato il fatto che si trattava, in larga parte, di giovani popolani di bell’aspetto.

Siamo arrivati, così, all’epoca aragonese, che comincia con Alfonso d’Aragona (che aveva conquistato il trono di Napoli nel 1443) che affidò al castello l’intera immagine del regno, pronto a sfidare l’identità fiorentina di Lorenzo il Magnifico. Fu in quell’occasione che la struttura cominciò ad assomigliare più ad una fortezza, ricostruita con le torri rotonde ad inglobare le precedenti a pianta quadrata, assumendo le forme attuali, con quel tocco gotico-catalano che gli venne impresso dall’architetto aragonese Guillem Sagrera, originario di Maiorca.

Nella “sala dei Baroni” si svolse, nel 1487, l’epilogo della famosa congiura dei baroni contro re Ferdinando I, figlio di Alfonso, da parte di numerosi nobili: il re invitò i congiurati in questa sala col pretesto di una festa di nozze volta alla riconciliazione e, dopo aver ordinato ai suoi soldati di sbarrare le porte, li fece arrestare tutti, punendone moltissimi con una condanna a morte.

Alla fine del Quattrocento, il Maschio Angioino venne nuovamente saccheggiato, questa volta da Carlo VIII di Francia, e, quando il regno di Napoli venne annesso alla corona di Spagna, perse la sua funzione di residenza reale, restando soltanto presidio militare grazie alla sua posizione strategica: molti dei suoi ornamenti, in questo periodo, vennero persi per sempre.

Nel tempo, i dominatori spagnoli fecero cancellare sempre più le tracce aragonesi ed angioine dal suo perimetro (e non solo): addirittura vennero persino cancellati quattro affreschi di Giotto. Altre sue opere vennero distrutte da un incendio avvenuto nel XX secolo.

Questa triste fase di decadenza, fortunatamente, si estinse con l’arrivo dei Borbone: risistemato e ristrutturato, il castello, però, perse il suo ruolo di residenza reale (era il tempo della costruzione della Reggia di Caserta, di quella di Portici e di altre meraviglie imponenti nel circondario della Campania); tuttavia, con la nascita della Repubblica Partenopea del 1799, Ferdinando I delle Due Sicilie lo fece nuovamente ristrutturare e vi ospitò l'”arsenale di artiglieria” e un “officio pirotecnico“.

Novecento e oggi

Negli anni ’20, il conte Pietro Municchi, ingegnere allora assessore al decoro urbano, presentò al Consiglio Comunale un progetto: cominciarono, così, una serie di lavori che coinvolsero non solo gli interni, ma anche le fabbriche e i capannoni a ridosso della piazza che vennero abbattuti per lasciare posto a dei giardini. L’unico “superstite” di questo intervento fu la porta della cittadella, cioè l’accesso aragonese originario.

I lavori durarono fino al 1939 e restituirono alla comunità lo stile iniziale, eliminando quanto più possibile le invasive risoluzioni volte alla cancellazione delle radici del castello stesso.

 

 

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