Napoli e Megaride, l’isola che non c’è

A sentir parlare delle isole che puntellano i mare su cui affaccia la Campania, la mente va quasi in automatico a Capri, Ischia, Procida e Nisida. Ma ne esiste una quarta, l’isolotto di Megaride, su cui sorge il Castel dell’Ovo. Passeggiando per via Partenope, voltare la testa verso le mura fortificate del castello per ammirarne la possanza, è un gesto che il passante compie senza neanche accorgersene, quasi fosse calamitato da quell’angolino di passato e da tutta la sua antica storia.

Guardandolo così, com’è ora, animato e illuminato dalla fervente vita del borgo Marinari, e di tutti i ristoranti circostanti, l’isolotto di Megaride sembra essere perfettamente in linea con la Napoli di oggi, ma la realtà è che Megaride rispettando appieno la sua natura di isola divisa dal resto della città, ha avuto una vita del tutto autonoma rispetto a questa, ospitando popoli, costruzioni e culture sempre diverse tra loro.

Tutto questo fino a quando i fenomeni di abbassamento della costa e d’insabbiamento del mare, insieme agli interventi che hanno interessato la fascia costiera nel XIX secolo, non hanno fatto si che l’uomo escogitasse un modo per imbrigliare l’animo dell’isola, e lo spirito della sirena che li vi è seppellita. Ecco nascere il sottile istmo artificiale di terra, che lega l’isolotto alla terra ferma, legandola definitivamente a Napoli, di cui è divenuta una sorte di appendice mitologica.

Megaride tra storia e leggenda

L’isolotto di Megaride fu, secondo le antiche leggende partenopee, dimora di ninfe e driadi, e teatro di eventi leggendari. Secondo un antico mito, già noto in Grecia orientale ancora prima della fondazione di Neapolis, il corpo senza vita della sirena Parthenope , che si era lasciata morire dopo che Ulisse aveva rifiutato il suo amore,  fu ritrovato sulle rive di Megaride, e li fu sepolto. Dell’isolotto di  Megaride parlò anche Matilde Serao, nel suo Leggende napoletane, dove descrive l’isolotto, in quella che doveva essere la sua “forma originale”, ossia, ricoperto da una fiorita superficie di aranceti, canneti e bassissimi arbusti tipici della macchia mediterranea.

All’interno della sua opera, amplio spazio viene dedicato anche al mito di Parthenope – emblema dell’amore romantico – che racconta in questo splendido modo :

« Parthenope non è morta, Parthenope non ha tomba, Ella vive, splendida giovane e bella, da cinquemila anni; corre sui poggi, sulla spiaggia. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori, è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene (…) quando vediamo comparire un’ombra bianca allacciata ad un’altra ombra, è lei col suo amante, quando sentiamo nell’aria un suono di parole innamorate è la sua voce che le pronunzia, quando un rumore di baci indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i baci suoi, quando un fruscio di abiti ci fa fremere è il suo peplo che striscia sull’arena, è lei che fa contorcere di passione, languire ed impallidire d’amore la città. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non muore, non ha tomba, è immortale …è l’amore. »

 

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